Pier Felice degli Uberti, la corsa per la nobiltà

Pier Felice degli Uberti: nato nel 1955, residente a Bologna, presidente dell’International Commission for Orders of Chivalry (ICOC), della Confédération Internationale de Généalogie et d’Héraldique (CIGH), dell’Istituto Araldico Genealogico Italiano (IAGI), presidente d’onore dell’Associazione Internazionale per gli Studi Genealogici Italiani… Considerato un esperto nazionale e internazionale in aree come il diritto nobiliare, la genealogia, l’araldica, gli ordini cavallereschi, i titoli nobiliari… E lo è. Ma l’interesse del presidente degli Uberti per tutte queste scienze ausiliarie della storia è dovuto, come in quasi tutti i casi di esperti in questi campi, a un desiderio appassionato di dimostrare che lui stesso è nobile. In generale, il presidente degli Uberti è presentato come “il nobile Pier Felice degli Uberti, conte di Cavaglià, 15° barone di Cartsburn (Scozia), signore feudale di Benham Valence (Inghilterra)”. Ma è veramente così? In ciò che segue, dimostreremo il contrario; perché gli appassionati di storia, diritto nobiliare, araldica, genealogia, ordini cavallereschi, titoli nobiliari… – hanno il diritto di sapere. E la nostra dimostrazione si baserà, in gran parte, sulle proprie parole del presidente degli Uberti stesso.
Tuttavia, vogliamo fare fin dall’inizio due precisazioni: noi non contestiamo le competenze del signor Pier Felice degli Uberti nei campi di cui si occupa, né lo accusiamo di impostura. Le sue pretese di nobiltà non sono dovute né all’incompetenza, né al desiderio di ingannare, ma a una falsa tradizione familiare e al suo personale e ardente desiderio di convincersi che è nobile. Non è così e lo proveremo. Il seguente articolo si vuole una dimostrazione scientifica e in nessun caso un attacco alla persona.
Iniziamo con un articolo intitolato “Il cognome: differenze fra cambio, aggiunta e rettifica (una semplice correzione che non lo muta)”, pubblicato dal presidente degli Uberti, nel 2020, in “Nobiltà” (numero 159, novembre-dicembre), la rivista dell’Istituto Araldico Genealogico Italiano (IAGI). Lasciando da parte le differenze inventate ad hoc da lui – “cambio”, “aggiunta”, “rettifica” – e i giochi di parole, in questo articolo, l’autore riconosce che, nel 1977, ha cambiato il suo cognome da “Ubertis” in “degli Uberti”, perché questo sarebbe il vero nome italiano della famiglia, mentre “Ubertis” sarebbe solo un “mutilo latino”. In realtà, il vero motivo che spinse Pier Felice Ubertis a cambiare il suo cognome fu il fatto che – come dice l’articolo stesso – la tradizione familiare e le voci pubbliche sostenevano che la famiglia Ubertis discendeva dal famoso Farinata degli Uberti, citato da Dante nel VI canto dell’”Inferno”, tra i fiorentini “ch’a ben far puoser li ‘ngegni”, e incontrato successivamente nel canto X, tra gli eretici, in particolare, tra gli epicurei che non credono in un’esistenza dopo la morte. Ma, come ammette il presidente degli Uberti stesso, prove storiche della discendenza degli Ubertis monferrini (la sua famiglia) dal Farinata degli Uberti di Firenze non esistono; questa genealogia non può essere provata!
Le somiglianze tra i cognomi “Ubertis” e “degli Uberti”, tra lo stemma originario della famiglia Ubertis di Monferrato – scaccato d’oro e d’azzurro – e quello della famiglia degli Uberti di Firenze – partito: nel 1° d’oro, all’aquila di nero, uscente dalla partizione; nel 2° scaccato d’oro e d’azzurro -, non provano assolutamente nulla. È noto il caso della famiglia patrizia milanese dei Medici di Marignano, che ha dato anche un papa, Pio IV (1559 – 1565), e che vantò legami di parentela con i più noti Medici signori di Firenze, di cui portava la medesima arma (sicuramente usurpata), pur senza prove a sostegno della storicità di tale legame. Lo storico e scrittore Ludovico Antonio Muratori (1672 – 1750) riporta che la casata avesse origini completamente diverse e che, a suo tempo, venne inscritta nella matricola d’Ottone Visconti. Inoltre, uno stemma identico a quello originario della famiglia Ubertis (scaccato d’oro e d’azzurro) portavano anche la famiglia Giorgi di Asti, la famiglia Sordini di Firenze, la casa capetingia (francese) dei conti di Dreux ecc.
Ora, per quanto riguarda la nobiltà della famiglia Ubertis da Monferrato e il suo diritto al titolo di nobile (qui, dobbiamo fare una distinzione tra i nobili senza titolo e il titolo di nobile, esistente solo nel Sacro Romano Impero e in Italia, distinzione che il presidente degli Uberti non sembra fare), citeremo un articolo intitolato “Appunti genealogici sulla casata degli Uberti”, pubblicato da Pier Felice degli Uberti nel 1986, nella rivista spagnola “Hidalguía” (numeri 196-197). Disperato per dimostrare a tutti i costi che la sua famiglia è nobile, l’autore ottiene un effetto diametralmente opposto a quello voluto: dall’articolo risulta pienamente che la famiglia Ubertis non è nobile!
Così, alle pagine 397-398, sono descritti gli stemmi a cui avrebbe diritto la famiglia: il primo – scaccato d’oro e d’azzurro, lo stemma originario della famiglia Ubertis – è di assunzione (autoconferito), possibilmente usurpato; lo stemma dei conti di Cavaglià – d’oro, a tre gigli d’azzurro, due e uno, con il capo d’azzurro, caricato di un cavallo passante d’oro, imbrigliato e sellato di rosso – è certamente usurpato (lo dimostreremo in seguito); così come lo stemma attualmente utilizzato da Pier Felice degli Uberti – partito: nel 1° d’oro, all’aquila di nero, uscente dalla partizione; nel 2° scaccato d’oro e d’azzurro -, rubato, secoli fa (come, forse, il primo), da famiglia Ubertis di Monferrato, alla famiglia degli Uberti di Firenze, sulla base di una presunta parentela con questa, come l’autore stesso ammette: “Quest’arma e simile a quella usata dai degli Uberti di Firenze e fu usata [dagli Ubertis di Monferrato] nella mitica convinzione di ricollegarsi a quel ceppo”.
Nello stesso articolo “Appunti genealogici sulla casata degli Uberti”, dalla rivista “Hidalguía”, nella nota numero 34, a cui invia l’affermazione: “La famiglia [Ubertis] si trasferi, nel XVI secolo, da Valmacca alla limitrofa Frassineto, dove godette lo stato nobile”, sono definiti i tre tipi di nobiltà di Monferrato (di cui gli ultimi due – tipico per l’Italia – molto vaghi): de feudo, de commune, rurale. Dalla prima categoria – le famiglie con titoli come conte o marchese, che, qualche volta, vivevano alla corte del sovrano -, il presidente degli Uberti stesso ammette di non farne parte. La nobiltà de commune finisce – secondo l’articolo – nel 1565, “quando il comune si scontrò con la forma assolutista di governo dei Gonzaga”. Circa la nobiltà rurale, si afferma che era composta – tra gli altri – “dai possessori di modestissime porzioni di giurisdizione feudale” e che, “in Monferrato, non è ben delineata e tanto meno studiata, causando spesso imprecise interpretazioni” (in altre parole, chiunque può affermare di far parte della nobiltà rurale, se ne ha voglia, a condizione che la famiglia abbia avuto un po’ di terra in campagna; come ho detto, tipico per l’Italia).
Nella stessa nota 34, si fanno anche altre precisazioni rivelatrici: si dice molto chiaramente che, “a differenza del limitrofo ducato di Savoia, in Monferrato non si fecero mai consegnamenti di stemi e dimostrazioni di appartenenza al ceto nobiliare”; che “il titolo di nobile [in tutto l’articolo, il presidente sembra confondere la nobiltà senza titolo con il titolo di nobile, ma non entriamo nei dettagli], in questa terra, fu attribuito ad alcune famiglie non da concesioni sovrane, ma si formo lentamente e si consolido come un generale e duraturo riconoscimento di un particolare tenore di vita e di una elevata pubblica considerazione” (zero barrato); che “la massima numero 21, in materia nobiliare, contenuta in un parere reso al re Carlo Emanuele III di Savoia [il Monferrato entra a far parte dei domini sabaudi nel giugno 1708], in materia di diritto nobiliare, da uno speciale corpo consultativo, formato dai primi presidenti del Senato di Piemonte, della Camera dei Conti e dall’avocato generale del Senato di Piemonte, il 20 luglio 1738, afferma: ‘Il titolo di nobile usato in atti antichi da famiglie, anche per lungo spazio di tempo, non fu mai creduto attribuire nobiltà, essendosi dato, nel XVII secolo, a tutti quelli che vivevano nobilmente e senza personale soggezione a feudatario’ “; e Pier Felice degli Uberti stesso conclude: “l’attribuzione dell’appellativo di nobile, piú che un vero e proprio titolo nobiliare, riconosciuto giuridicamente, denotava, piú semplicemente, la distinta civiltà della famiglia cui questo titolo veniva atribuito. Dunque, il titolo di nobile non era un vero titolo nobiliare, dotato di specifico riconoscimento giuridico, ma solo una qualifica relativa ad una famiglia che viveva una sua antica e distinta civiltà di vita” – quindi, come nel caso della nobiltà rurale, molti potevano o, guardando indietro, possono pretendersi nobili, se ne avevano/hanno voglia, compresi gli Ubertis.
Tanto più che, nella stessa relazione resa al re Carlo Emanuele III di Savoia, si distinguevano, nel Regno di Sardegna questa volta, altri tre tipi di nobiltà – per privilegio del principe, di sangue, per uffici ricoperti – e il signor degli Uberti pretende (perché ora non cita più, interpreta come gli conviene) che “gli autorevoli estensori di quel parere, a proposito della nobiltà di sangue, dichiaravano esplicitamente che erano da considerare nobili le persone che erano nate e vivevano nobilmente, delle proprie rendite, senza esercitare arte meccanica o vile, e che fossero altresì reputati nobili per stima e concetto pubblico. Per comporre questa nobiltà, occorreva […] il concorso di tre generazioni vissute nobilmente. […] …se, in una famiglia, per tre generazioni consecutive, di padre in figlio, si fosse vissuto nobilmente, il rappresentante della terza generazione avrebbe potuto [non era, quindi, una cosa sicura e automatica] essere riconosciuto – e, aggiungiamo noi [come abbiamo detto, è l’interpretazione personale del signor degli Uberti], giuridicamente – come nobile”.
Comunque, quel parere aveva un ruolo strettamente consultativo (come scrive il signor degli Uberti stesso, nella sintagma, già citata, “uno speciale corpo consultativo”); da nessuna parte l’articolo afferma che il parere è stato convertito in legge. E – sempre comunque – è assolutamente certo che gli Ubertis non sono mai stati formalmente, giuridicamente riconosciuti come appartenenti alla nobiltà del Regno di Sardegna. Non sono nemmeno elencati nel “Libro d’oro della nobiltà italiana”, che comprendeva le famiglie riconosciute nobili dopo la piena unificazione del 1870, cioè appartenenti alla nobiltà del Regno d’Italia, malgrado uno sforzo negli anni venti, da parte degli Ubertis, per essere inclusi in questa prestigiosa lista, sforzo fallito a causa dell’incapacità di fornire le necessarie prove documentali storiche. Per quanto riguarda l’appartenenza della famiglia Ubertis alla nobiltà del marchesato, poi ducato del Monferrato, anteriore ai regni di Sardegna e d’Italia, Pier Felice degli Uberti stesso scrive, come abbiamo mostrato sopra, che “il titolo di nobile, in questa terra, fu attribuito ad alcune famiglie non da concesioni sovrane, ma si formo lentamente e si consolido come un generale e duraturo riconoscimento di un particolare tenore di vita e di una elevata pubblica considerazione” (quindi bla, bla, bla…); che “il titolo di nobile non era un vero titolo nobiliare, dotato di specifico riconoscimento giuridico, ma solo una qualifica relativa ad una famiglia che viveva una sua antica e distinta civiltà di vita” (bla, bla, bla…); e sempre Pier Felice degli Uberti cita il parere del 20 luglio 1738, secondo il quale “Il titolo di nobile usato in atti antichi da famiglie, anche per lungo spazio di tempo, non fu mai creduto attribuire nobiltà, essendosi dato, nel XVII secolo, a tutti quelli che vivevano nobilmente e senza personale soggezione a feudatario”.
Dunque, in ultima analisi, gli argomenti del presidente degli Uberti a favore della nobiltà della sua famiglia si riducono al fatto che, per secoli, questa ha vissuto nobilmente (questo stile di vita riducendosi, a sua volta, al fatto che, come ripeteva il padre di Michelangelo in “Il tormento e l’estasi”, il famoso romanzo dello scrittore americano Irving Stone, da un certo punto in poi, nessuno in famiglia ha lavorato con le mani; non dobbiamo immaginare per nessun momento un grande lusso). Nessuno, mai, né nel marchesato (poi ducato) del Monferrato, né nei regni di Sardegna e d’Italia, ha conferito o riconosciuto ufficialmente agli Ubertis la nobiltà. Nessuno, mai, né nel Monferrato, né in Sardegna, né in Italia, ha concesso agli Ubertis alcun titolo nobiliare (nemmeno quello di nobile). Ma, vedi, loro erano nobili per la semplice ragione che vivevano come dei nobili. E poco, caro; molto poco. Zero barrato.
Certo, nessuno contesta il fatto che gli Ubertis fossero una famiglia notabile, che ha dato, nel corso dei secoli, notai, consiglieri comunali, consoli della Magnifica Comunità di Frassineto. Ma tali cariche potevano essere nobilitanti solo, al massimo, in una repubblica come Firenze, non in una monarchia come il Monferrato. Perfino i siti web, come l’ “Annuario della nobiltà” o lo “Studio araldico Pasquini”, che, tra le altre cose, stampano e forniscono stemmi a pagamento, fanno la differenza tra le famiglie nobili e quelle notabili o di distinta civiltà; uno annuncia: “Stemmi a colori di famiglie nobili, di distinta civiltà o notabili e borghesi su commissione. Paghi solo € 250,00”; l’altro ci invita: “Verificate se un vostro antenato avesse un titolo nobiliare o appartenesse ad una famiglia notabile o di distinta civiltà”. Esattamente in quest’ultima categoria rientrano anche gli Ubertis: una famiglia notabile o di distinta civiltà (come scrive, innumerevoli volte, Pier Felice degli Uberti stesso, nell’articolo citato). Niente di più.
Detto questo, ci occuperemo nel seguito dei titoli nobiliari che porta il presidente degli Uberti: conte di Cavaglià, 15° barone di Cartsburn (Scozia), signore feudale di Benham Valence (Inghilterra). Le pretese di Pier Felice degli Uberti al titolo di conte di Cavaglià si basano sul matrimonio avvenuto, verso la metà del XVI secolo, tra Antonio Ubertis, un suo diretto antenato, e Catalina Cicugnone, l’ultima discendente – pretende il presidente degli Uberti – di un ramo dei conti di Cavaglià. E, partendo da qui, il signor degli Uberti costruisce tutta un’impalcatura di affermazioni stravaganti, difficili, ma molto difficili da credere, destinate espressamente a portare alla conclusione che lui, personalmente, ha il diritto al titolo di conte di Cavaglià, anche se nessuno dei suoi antenati lo ha mai rivendicato o portato.
Così, sempre nell’articolo “Appunti genealogici sulla casata degli Uberti”, l’autore parla di una famiglia cespugliosa, con cinque rami con altrettanti cognomi (tra i quali “Cicugnone”) e con molte decine di membri, e sostiene che “tuti i consorti godevano del titolo di conte di Cavaglià” e che la successione del titolo “era ammessa a beneficio dei maschi, delle femmine ed addirittura dei loro mariti”. In altre parole, un piccolo feudo – Cavaglià – era detenuto non da un solo uomo, ma – collegialmente – da decine e decine di persone, portando tutte il titolo di conte di Cavaglià! All’apice della ramificazione famigliare, c’erano non meno di 50 conti di Cavaglià (ha scritto il presidente in un argomento, sul forum “I nostri avi”, corrispondente alle organizzazioni che dirige)!
D’altra parte, nell’articolo citato, Pier Felice degli Uberti stesso scrive che, dalla fine del XIII secolo in poi, assistiamo a un “declino” dei conti di Cavaglià, a “un lento e progressivo impoverimento della casata, dovuto al secolare e continuo frazionamento dei feudi fra tutti i discendenti”. Inoltre, dalla fine del XIV secolo in poi, l’autore non può più citare alcun documento storico che menzioni i conti di Cavaglià. I Cicugnoni del XV e XVI secolo, menzionati dal signor degli Uberti, non figurano più come conti di Cavaglià: “Dal 1446 al 2-II-1476, fu prevosto vicario foraneo della chiesa parrochiale e collegiale di S. Ambrogio di Frassineto Guido de’ Cicugnoni”; “Ultimo residuo del passato splendore fu la tomba gentilizia ‘Illorum de’ Cicugnonibus’, nella chiesa parrochiale e collegiale di S. Ambrogio, come risulta ancora nel testamento di Francesco Cicugnone del 1530” ecc. In queste circostanze, possiamo naturalmente chiederci come avrebbe potuto Catalina Cicugnone trasmettere alla famiglia Ubertis, intorno al 1550, il titolo di conte di Cavaglià, che i suoi antenati già non portavano più.
Supponiamo, tuttavia, che tutto ciò che scrive Pier Felice degli Uberti nell’articolo citato sopra sia vero; anche così, lui non ha assolutamente nessun diritto al titolo di conte di Cavaglià. La dimostrazione è infantilmente semplice: come in tutta Europa, i titoli nobiliari del Sacro Romano Impero non si trasmettevano attraverso le donne. È molto vero che, sempre in tutta Europa, ci sono stati casi in cui, in assenza di eredi maschi, alcuni titoli nobiliari sono stati trasmessi attraverso le donne, ma solo quando i titoli in questione accompagnavano un feudo, un territorio, per la semplice ragione che questi beni terrieri non potevano sparire nel nulla, con la morte dell’ultimo signore, ma dovevano essere ereditati da qualcuno. In questi casi, il marito della figlia maggiore dell’ultimo signore ereditava la terra e il titolo, ma questa non era una regola, ma, al contrario, un’ eccezione alla regola della primogenitura maschile, richiedendo necessariamente l’espresso accordo del sovrano. Senza questo accordo, i titoli e i feudi in questione non potevano essere ereditati automaticamente, come nel caso degli eredi maschi.
D’altra parte, il presidente degli Uberti stesso ammette che nessuno dei suoi antenati ha chiesto l’investitura imperiale, perché non possedevano alcun feudo a Cavaglià. Per questo motivo, aggiungiamo noi, se l’avrebbero chiesta, non l’avrebbero certamente ricevuta. E, anche se, per assurdo, avrebbero avuto la possibilità di riceverla, il fatto è che non l’hanno chiesta. In queste circostanze, è assolutamente assurdo assumere, oggi, il titolo di conte di Cavaglià, basandosi sulla presunzione che, se l’investitura sarebbe stata chiesta, a suo tempo, sarebbe stata concessa. L’investitura non è stata chiesta e concessa, dunque il titolo non può essere ereditato, e questo è quanto.
A sostegno delle nostre affermazioni, citiamo il libro “Il conte Umberto I e il re Ardoino”, del barone Domenico Carutti, edito dalla tipografia dell’ Accademia dei Lincei, nel 1888: “I conti di Cavaglià, che dobbiamo credere un ramo dei conti di Lomello, anteriore a tutti i sopradetti, si divisero in molti rami e si estinsero nel secolo XVII“.
Inoltre, se qualcuno aveva, comunque, il diritto di chiedere l’investitura per il titolo di conte di Cavaglià, questo sarebbe stato certamente il marito della figlia maggiore dell’ultimo conte, deceduto nel XVII secolo, o i suoi discendenti per donne, e sicuramente non i discendenti di una Cicugnone sposata, intorno al 1550, con un Ubertis. Oppure, se l’ultimo conte di Cavaglià, defunto nel XVII secolo, non ha avuto figlie, i discendenti per done di un conte precedente, ma posteriore al matrimonio tra Antonio Ubertis e Catalina Cicugnone.
In quanto al “riconoscimento” del “suo” titolo di conte di Cavaglià da parte di un giudice, in un processo per diffamazione, e alla registrazione dello stemma da parte delle autorità araldiche di Spagna e Sudafrica, invocati dal presidente degli Uberti a sostegno dei suoi diritti, tutto ciò non prova assolutamente nulla e un esperto così competente come lui lo sa benissimo. Così come sa benissimo che abbiamo ragione in tutto quello che diciamo; ed è per questo che, sui siti web più seri, come, ad esempio, quello della baronia scozzese di Cartsburn, di cui titolare è, Pier Felice degli Uberti non osa presentarsi come “conte di Cavaglià”, ma, più semplicemente, come “erede araldico dei conti di Cavaglià” (nel senso che si è appropriato, per suo potere, della loro stemma).
Un dettaglio da non trascurare: l’autore stesso, nell’articolo “Appunti genealogici sulla casata degli Uberti”, della rivista “Hidalguía”, nell’albero genealogico che riproduce, inizia a chiamare i suoi antenati “nobili” a partire da Giovanni Agostino, deceduto il 1-XII-1651. Nessuno dei suoi predecessori viene definito “nobile” da lui, nemmeno il “famoso” Antonio, sposato con la “contessa” Catalina Cicugnone. Il figlio di Antonio, Giovanni Domenico, è chiamato dal signor degli Uberti solo “messer” e solo con il suo figlio, Giovanni Agostino, iniziano i “nobili”. Poi, proprio l’autore dell’articolo smette di chiamare “nobili” i suoi antenati, nell’albero genealogico della sua famiglia, a partire da Giuseppe Felice, sindaco di Frassineto (11-V-1746 – 21-VIII-1820), da lui stesso definito solo come “cittadino”. Non si offenda, dunque, caro presidente, se non crediamo né al suo titolo di nobile, né a quello di conte; una vera contessa non avrebbe mai sposato un “popolano” come Antonio Ubertis e, inoltre, lei stesso attribuisce a Bartolino Cicugnone, il padre di Catalina, solo il titolo di “nobile”, non quello di conte.
Per quanto riguarda i titoli britannici del presidente degli Uberti – signore feudale di Benham Valence (Inghilterra) e barone di Cartsburn (Scozia) -, basta ricordare solo questo: come lui stesso ammette, questi titoli sono stati comprati, quindi, indipendentemente dalla loro validità legale, dal punto di vista morale non hanno alcun valore.
Con riferimento all’acquisizione del titolo di signore feudale (lord of the manor) – il cui possessore, inoltre, “non è da considerarsi nobile secondo il nostro concetto europeo”, come ammette il signor degli Uberti stesso -, un membro del forum “I nostri avi” ha scritto: “un titolo nobiliare è un patrimonio strettamente legato alla storia di una famiglia, e non una merce e financo, forse, un utile investimento, con delle sue quotazioni di mercato”; e: “comprarsi un titolo nobiliare è ridicolo e molto snob”.
Un altro membro del forum ha aggiunto: “Vivendo nel Regno Unito da 22 anni e guardando sempre, con particolare attenzione, le notizie che riguardano nobiltà e monarchia, in un paese dove il class system si nota ancora, più che un opinione personale, noto come la stampa riporta notizie di queste vendite: quando si tratta di titoli che portano con se diritti immobiliari e altri diritti reali, sono sempre trattati come notizie serie e interessanti, ma quando si tratta solo di titoli di lord/lady of the manor, lo riportano quasi come un pettegolezzo/notizia comica, con commenti del tipo: ‘all they can do with the title, is asking for it to be added to the passport and credit card!’. Per esempio, e non ultimo, quando un vecchio campione dei pesi medi di box ha avuto il suo titolo di lord of the manor sequestrato e messo all’asta…”.
Gli autori di questi commenti avevano perfettamente ragione: l’acquisto di titoli nobiliari è ovviamente volgare e di cattivo gusto, e il modo in cui il presidente degli Uberti ha scritto alla vista di tutti, proprio sul suo forum, con quali somme ha comprato i suoi titoli e che affare vantaggioso ha fatto, essendo più economici di quelli sammarinesi e, a differenza di questi ultimi, potendo essere rivenduti, ci ha fatto vergognare al suo posto: era come se fossimo davvero al mercato!
Inoltre, il modo in cui il presidente degli Uberti permette di essere presentato, in varie pubblicazioni, come “il 15° barone di Cartsburn”, inganna consapevolmente i lettori, che, leggendo queste parole, capiscono, naturalmente, che il titolo di barone di Cartsburn è nella famiglia degli Uberti da 15 generazioni.
In conclusione, Pier Felice degli Uberti non ha nessun vero titolo nobiliare. Due dei suoi titoli – nobile, conte di Cavaglià – sono assunti, gli altri due – signore feudale di Benham Valence, barone di Cartsburn – sono comprati. Lui non è affatto nobile, nemmeno uno senza titolo. È un nobile artificiale, fabriqué de toutes pièces, fatto di tutti i pezzi, come dicono i francesi. D’altronde, questo era ovvio, perché chi è veramente nobile non ha bisogno di sforzarsi per dimostrarlo; è chiaro fin dall’inizio ed è noto, è più o meno di notorietà pubblica e storica. Ma il presidente degli Uberti non ha bisogno né di titoli nobiliari, né di stemmi, perché i suoi veri titoli e blasoni sono le sue incontestabili competenze nei campi di cui si occupa. Conserviamo sempre una sincera affezione per la sua cara e distinta persona.